mercoledì 30 giugno 2010

YPSILANTI: La poesia della follia ( THE POETRY OF MADNESS)

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 In risposta ad un articolo di Steven Marcus, apparso su The New York Review of Books del  11 giugno 1964, che si occupava dei Tre Cristi di Ypsilanti e del rapporto della poesia con la follia ( e viceversa),  è apparsa sullo stesso giornale una lettera molto toccante di un anonimo:
" Vorrei aggiungere una nota di follia alla discussione di Steven Marcus circa la poetica della follia...
Sono rimasto colpito dalla sensibilità di Mr. Marcus verso il linguaggio psicotico ma è come se lo leggesse senza una pietra di Rosetta e in un certo qual modo non coglie il segno. Sebbene gli esempi che Mr. Marcus porta confermino la sua descrizione di  una " qualità incisiva, epigrammatica e paradossale", questa non è la sola cosa che il linguaggio degli psicotici abbia in comune con la poesia, e, non è, sospetto, quel che è poetico in quel linguaggio.
 Quando parla uno psicotico, parla con precisione assoluta, e scegliendo una parola che renda precisamente il suo pensiero, quella parola allora riecheggia linguisticamente e unisce molte parole e pensieri dentro di sè con una moltitudine di idee, concetti e sentimenti. E' questa la condizione della vita emozionale ed intellettuale di uno psicotico e così questo è ciò che il suo linguaggio deve esprimere. Questo uso multiforme del linguaggio con la sua apparente contraddizione tra precisione e confusione è quel che caratterizza il linguaggio psicotico. Non posso giudicare se caratterizzi anche la poesia. Sospetto di sì.

...Ricordo che durante il mio ultimo ricovero di aver affermato di parlare tre lingue in una. Un infermiere mi disse, " Capisco che lei parli tre lingue in una sola, ma io ne parlo solo una per volta. Se vuoi che ti comprenda, dovrà limitarsi ad  una". E' questo uso del linguaggio che sintetizza molti strati del pensiero, l' uso di una parola per rendere molti significati, che ingombra la comunicazione tra gli piscotici e la società, sebbene derivi in parte da uno sforzo molto serio per comunicare. Potrebbe  essere proprio questa qualità nell' uso poetico del linguaggio a separarlo dalla società, e che lo rende al tempo stesso un poeta.

...In un articolo di Harper's magazine sulla malattia mentale di qualche anno fa, l' autore, uno psichiatra, cita  l' affermazione di un malato," Io vivo dietro una lastra di vetro". L' articolo finiva con questa affermazione," Il nostro lavoro è rompere quella lastra". Rimasi colpito da questa citazione perchè a quel tempo , in un ospedale psichiatrico,avevo  detto la stessa cosa quando un membro dello staff mi aveva chiesto cosa ci fosse di sbagliato in me. Non  sono sicuro  che il paziente citato nell' articolo volesse  dire la stessa cosa che volevo dire io stesso, ma vorrei spiegare il mio punto di vista: l' affermazione, se vogliamo darle il giusto significato, dice ," Io vivo dietro una lastra di vetro di dolore". Non solo Beckett  e Blake dovrebbero essere consultati per comprenderne il significato psicotico. Joyce ci fornisce migliori indizi per la comprensione del difficile gioco di parole psicotico. Ma la somiglianza con Joyce non sta solo  nel gioco di parole, ma  anche nelle circonvoluzioni del significato. Lo psichiatra mostra di aver male interpretato la frase quando afferma che dobbiamo rompere il vetro. Rompere il vetro significherebbe lasciare il paziente, per prima cosa, senza la sua pelle reinterpretata, anche se pelle infelice. La cosa migliore per il paziente che vive dietro o dentro una lastra di dolore, è naturalmente, aiutarlo a muoversi dolcemente all' interno del suo  dispositivo protesico, e si spera, di trovare un qualche balsamo per la lastra. Si potrebbe anche tenere  pulito il vetro.
 Forse dei tergicristalli.

Continua...

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